L'idolo dei reggini

paninosalsicciadi Nino Mallamaci - Da qualche anno i controlli erano stati intensificati, ma nel 2017 erano divenuti davvero stringenti.

La crisi, le tensioni internazionali, le catastrofi ambientali: tutto concorreva a creare un clima di tensione che si respirava con l'aria. La gente camminava per le strade, in macchina, a piedi, con i pochi mezzi pubblici a disposizione, ma senza costrutto. Più che camminare vagava senza conoscerne il motivo, alla ricerca di qualcosa. Ma cosa?

Ad ogni angolo stazionavano le pattuglie interforze che pescavano nel mucchio e sottoponevano i fermati a controlli minuziosi, mentre gli individui magri, e solo per questa ragione maggiormente sospettati, venivano caricati a forza sui mezzi e portati via verso i punti di raccolta, dove si sarebbe proceduto con gli accertamenti strumentali.

Ciccio Logoteta era una di quelle persone delle quali si poteva dire, senza tema di smentita, "è un bravu cristianu". Un brav'uomo.

Era alto, o meglio basso, non più di un metro e mezzo, e la coppola calata sulla testa lo faceva apparire ancora più radente al suolo, tanto che se stava seduto o in piedi non c'era alcuna differenza. Gli occhi gli si vedevano appena, ma da quel poco si capiva che erano piccoli e neri, sormontati da un sopracciglio unico che andava dalla tempia destra a quella sinistra senza soluzione di continuità.

La bocca, il naso, le orecchie, stavano tutti al loro posto, ma nessuno se n'accorgeva, sia perché erano la coppola, la statura e gli occhi ad attirare la poca attenzione che meritava l'uomo nel suo complesso, sia perché le uniche parole che pronunciava, o quanto meno risultavano udibili, erano buongiorno, buonasera, sì, no. Se fosse nato privo di bocca, o muto, probabilmente non se ne sarebbe fatto un cruccio perché parlare non rientrava tra i suoi interessi. L'unico problema sarebbe stato dove posizionare i baffi a manubrio che davano il senso di una cura maniacale. Aveva un fisichetto da bambino, magro magro, e portava sempre un vestitino che poteva essere quello della prima comunione, con ai piedi delle scarpe di pelle lucida nere pulite al punto da luccicare.

Questo era Ciccio Logoteta, noto nel suo quartiere come "Carrichedda" (quando lo si voleva prendere in giro), o come "Cicciu l'uscieri", per via del mestiere che esercitava presso la locale Camera di commercio.

Quando, l'ultima sera della festa, fu fermato dalle parti della piazza principale mentre tornava a casa, chi lo conosceva temette subito il peggio: la disposizione in vigore da pochi anni, che lo aveva portato ad evitare di uscire in quei giorni, o a percorrere, in caso di estrema necessità, solo stradine secondarie e poco frequentate, l'avrebbe messo certamente nei guai.

La sua figura mingherlina aveva attirato subito l'attenzione delle forze dell'ordine, e un vigile urbano l'aveva fatto accomodare, senza tante cerimonie, sulla macchina di servizio. Non ci volle molto, al punto di raccolta, per compiere gli accertamenti e per stabilire che quell'ometto aveva violato la disposizione.

Cionondimeno, il procedimento doveva essere rispettato fino in fondo, e quello prevedeva un pubblico dibattimento in piazza, con tanto di pubblico ministero, giuria popolare, difensore nominato o d'ufficio, giudice collegiale.

Il giorno del processo la piazza era gremita come non mai, anche perché il povero Ciccio era l'unico a essere stato prima inquisito e poi rinviato a giudizio tra tutti gli abitanti della città.

I quali, manco a dirlo, erano nella quasi totalità schierati dalla parte dell'accusa e pretendevano per Carrichedda una punizione esemplare, tale da scoraggiare, nel futuro, ogni violazione della norma da parte di chicchessia.

Il pubblico ministero prese la parola dopo che il presidente della corte ebbe il suo daffare per zittire la folla, ed entrò subito della questione. "Signor Logoteta, alias Carrichedda o Cicciu l'uscieri, voi eravate a conoscenza della disposizione emanata 5 anni or sono dal sindaco e dall'arcivescovo metropolita?".

Non volava una mosca sull'intera piazza, quando Ciccio diede la sua laconica risposta: "Sì".

"Malidittu, svirgugnatu, nimicu i sta bella città". Le grida della calca si limitarono a questo solo perché Ciccio non aveva moglie e sorelle da ingiuriare.

"Silenzio, urlò il presidente, fate continuare il pubblico ministero". "Quindi ciò significa che coi avete in maniera deliberata, consapevole e cosciente violato la norma che sta a cuore a tutta la città, per come è stato appurato dagli accertamenti eseguiti?". Ciccio si avvicino al difensore d'ufficio (nessuno aveva voluto assumere l'incarico fiduciario per un'accusa così grave) e gli sibilò qualcosa all'orecchio.

L'avv. riferì che Ciccio si scusava, ma che proprio non ci riusciva; una volta ci aveva provato, da piccolo, ma non c'era stato niente da fare e, per questo motivo, suo padre l'aveva cacciato pure di casa.

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A questo punto, il procedimento andò avanti speditamente, avendo l'imputato ammesso la sua colpa, e la Giuria si ritirò in Camera di consiglio dopo pochissimo tempo. E in pochissimo tempo ne uscì, giacché tutti i giurati non ebbero alcun dubbio sul fatto che Ciccio doveva pagare non per la violazione in sé, che se si fosse trattato, che ne so, di un omicidio, o di un'estorsione, si

poteva anche sorvolare, ma per il gravissimo affronto perpetrato ai danni di tutta la città.

Il Giudice lesse la sentenza, di condanna ovviamente, e a quella seguì un boato d'approvazione che scosse le mura stesse del centro storico e anche oltre.

Mai sentenza aveva espresso in maniera tanto calzante lo spirito dei tempi.

Mai Giustizia e giurisdizione avevano coinciso come in quel caso.

Nei giorni successivi, migliaia e migliaia di concittadini di Ciccio si erano recati in processione per assistere all'esecuzione della sentenza.

Nella pubblica piazza, Ciccio Logoteta prendeva a morsi un enorme, grande come un palazzo, paninu cu satizzu.